"Può capitare di non riconoscersi allo specchio o di sentirsi come se si stessero guardando le sequenze del film della propria vita. Sono alcuni dei sintomi della dissociazione, uno stato di coscienza frammentato che implica amnesia, senso di irrealtà e la sensazione di essere distaccati da se stessi o dal proprio ambiente. "
Vi posto due articoli che ho trovato abbastanza chiari anche per i meno avvezzi alla problematica.
La dissociazione come meccanismo di difesa
La difesa dissociativa non solo come disturbo ma anche come modalità difensiva
L’articolo vuole esemplificare i diversi aspetti in cui si può considerare la dissociazione: come disturbo clinico identificabile nella categoria dei Disturbi Dissociativi secondo il DSM-IV, come fenomeno facente parte delle esperienze normali di un individuo e come meccanismo di difesa; in particolare è sviluppato questo ultimo aspetto che identifica la difesa dissociativa non solo come il meccanismo alla base dei disturbi più propriamente definiti “dissociativi”, ma anche come modalità difensiva riscontrabile in diverse patologie.
Dissociazione non patologica e disturbi dissociativi
Esistono episodi nella vita quotidiana in cui ricorriamo tutti alla dissociazione: per esempio: leggendo un libro che appassiona, “immergendoci” talmente nella lettura da provare un senso di disorientamento quando qualcosa, come un rumore, ci distoglie; “dimenticandoci” di essere alla guida perchè si pensa a tutt’altro; probabilmente ci stiamo “dissociando” da ciò che facciamo anche quando compiamo diversi lavori contemporaneamente, o quando leggiamo ad alta voce un brano non prestando attenzione al significato.
Queste esperienze non solo non rappresentano patologia, ma sarebbe forse più problematica la loro assenza, infatti dimostrano la capacità dell’individuo di lasciarsi coinvolgere dalle proprie fantasie e di poter poi riprendere il controllo delle proprie funzioni mentali senza rimanerne “sconvolto”.
In questo caso la realtà da cui ci si dissocia non necessariamente è vissuta come minacciosa e stressante; gli episodi sono transitori e non destano preoccupazione o disagio nel soggetto.
Quando invece vi è diagnosi di Disturbo Dissociativo, o Disturbo Post Traumatico da Stress siamo nel campo della patologia; anche se questa è direttamente riconducibile al trauma e ci sono possibilità di remissione, significa che la dissociazione è usata in modo non adattivo per l’individuo.
In primo luogo credo che l’utilizzo indiscriminato dei termini “dissociazione” e “disturbo dissociativo” sia da evitare perché crea confusione tra quella che può essere una modalità difensiva adattiva per l’individuo e una vera e propria patologia, che implica “un disagio clinicamente significativo oppure menomazioni nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti” (DSM-IV); per questo quando parlerò di disturbi dissociativi farò riferimento ai disturbi elencati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
“La caratteristica essenziale dei Disturbi Dissociativi è la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, dell’identità o della percezione dell’ambiente” (A.P.A., 1994).
I disturbi mentali sono concettualizzati nel DSM-IV come sindromi o modelli comportamentali o psicologici clinicamente significativi, che si presentano in un individuo e sono associati a disagio, a disabilità, ad un aumento significativo del rischio di morte, (...) od a un importante limitazione della libertà (A.P.A., 1994).
Sempre il DSM-IV avverte che “la dissociazione non dovrebbe essere considerata automaticamente patologica”, ma in questo caso il riferimento è più ad una prospettiva transculturale, in cui si richiede al clinico di considerare il background del paziente, in quanto stati di trance o esperienze di depersonalizzazione possono essere legati ad attività culturali e religiose normali in molte società; il disturbo dissociativo comporta invece una menomazione, un disagio, o la ricerca di aiuto.
Dissociazione come meccanismo di difesa
“Anche nelle persone normali si hanno stati di dissociazione dell’Io dal corpo (…) Per esempio i prigionieri dei campi di concentramento cercavano attivamente di provare questa sensazione, perché il campo non offriva nessuna via d’uscita, sia nello spazio che nel tempo. Non c’era altro modo di uscirne che con una fuga psichica...” (R.D. Laing, “L’Io diviso”1957)
In questo caso il forte impatto emotivo che il trauma ha sull’individuo e la sensazione diinsottraibilità alla situazione traumatica può portare all’uso della dissociazione.
Non si tratta dei fenomeni dissociativi “normali” di cui ho parlato sopra perché il materiale dissociato è minaccioso e la dissociazione è utilizzata come difesa per superare una situazione vissuta come inaffrontabile, paralizzante; essa permette tuttavia di allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico ma l’esperienza viene come congelata, relegata in una parte della memoria non accessibile alla coscienza, compartimentalizzata.
L’elaborazione del vissuto traumatico è rimandata ad un futuro, ad un momento in cui si suppone si sarà in grado di accettare e guardare l’esperienza senza esserne sopraffatti: in questo consiste soprattutto l’adattività di questa difesa.
Strumenti di valutazione della dissociazione.
Secondo le precedenti differenziazione sono descritti diversi strumenti per misurare la difesa dissociativa, che qui mi limiterò ad elencare e per la cui trattazione rimando al capitolo quinto della mia tesi “la difesa dissociativa” presso l’Università di Bologna; per la diagnosi di disturbo dissociativo sono indicati strumenti oggettivi specifici come la Dissociative Disorder Interview Schedule (DDIS) di Ross, la SCID-D basata sui criteri del DSM-IV mentre la Dissociative Experience Scale ingloba all’interno degli items esperienze dissociative normali; vi sono inoltre scale dei meccanismi difensivi che prendono in considerazione il meccanismo della difesa dissociativa, tra cui la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS) di Perry e il Defensive Functioning Scale; tra i test proiettivi ho preso in considerazione il TAT ed il Test di Rorschach: oltre a fornire informazioni sulla struttura di personalità dell’individuo questi strumenti permettono di evidenziare l’uso della difesa dissociativa attraverso alcuni indicatori (per esempio nel Rorschach il movimento atipico e il punteggio dissociativo).
La difesa dissociativa e gli altri meccanismi.
Fare un confronto con gli altri meccanismi difensivi può aiutare a individuare certe “sfumature” del suo funzionamento.
Considerando il diniego come un gruppo di difese lungo un continuum (Lerner, 2000) porremo da un lato difese come la minimizzazione, in cui la distorsione della realtà è minima, e dall’altro lato il diniego vero e proprio, come rifiuto “di riconoscere un oggetto fisico o un evento che fa parte della sua esperienza presente” o “negazione psicotica” (Lingiardi e Madeddu, 1994).
Per le sue caratteristiche di forte distorsione della realtà al punto da non riconoscere eventi esterni come parte della propria esperienza sono d’accordo con Lerner nella sua affermazione che “la dissociazione corrisponderebbe al diniego di basso livello piuttosto che al diniego a livello nevrotico” (Lerner, 2000).
Un errore molto comune è poi pensare che il materiale dissociato sia “dimenticato” al pari del materiale rimosso nel meccanismo di rimozione.
Specialmente quando parliamo di Disturbo Dissociativo dell’Identità, “è erroneo concludere che il disturbo abbia a che fare con la memoria repressa (repressed memory) che più tardi ritorna alla mente (diventando recovered memory) (...) E’ importante fare chiarezza agli scettici sul fatto che questi individui (che hanno subito abuso) non hanno mai dimenticato l’abuso infantile, anche se lo hanno fatto i loro attuali stati di personalità. Con questo disturbo, la memoria non è repressa in un inconscio freudiano ma è dissociata in stati di coscienza alternativi (gli stati di personalità alternata) ” (Nadkimen, Klein et altri, 1999).
Entrambe le difese, rimozione e dissociazione, escludono alcuni contenuti mentali dalla consapevolezza; tuttavia “i processi differiscono per ciò che accade al materiale escluso. Con la rimozione, per definizione, il materiale è relegato nell’inconscio, quell’area della vita mentale che non può essere resa consapevole, nemmeno per scelta volontaria” e ciò implica una divisione orizzontale, in cui “ciò che è conscio si trova sopra e ciò che è inconscio è messo sotto; in mezzo vi è una barriera che separa le due parti”.
Nella dissociazione i contenuti non sono relegati nell’inconscio ma “si suppone possano esistere in parallelo, in una specie di co-consapevolezza, oppure si può pensare che siano accessibili alla consapevolezza considerandoli localizzati nel preconscio. (...) la divisione qui non è orizzontale come nella rimozione, ma piuttosto verticale, tra settori dell’esperienza conscia, separati da quella che Hillgard definisce una barriera dissociativa” (Lerner, 2000).
E’ utile inoltre distinguere la dissociazione dalla scissione perché parlare di contenuti tenuti separati, entrambi a livello conscio, può trarre in inganno: infatti “in nessuna delle due la divisione conscio-inconscio è un problema di fondo” ed “entrambe danno origine a un disturbo del senso di sé o del senso di identità” (Lerner, 2000)
Ma la domanda che ci dobbiamo porre è: cosa è mantenuto separato nei due meccanismi di difesa? Nella scissione a provocare ansia è l’ambiguità dei concetti; un oggetto con qualità affettive opposte, in alcuni momenti buono e in altri cattivo, provoca una tale ansia che necessita della scissione per cui la rappresentazione mentale dell’oggetto sarà duplice: un oggetto buono e un oggetto cattivo.
“La dissociazione, invece, è un concetto più ampio ed è usato per indicare una serie di suddivisioni che non sono tipicamente polarizzate in buone e cattive (...) ma comprende fenomeni diversi tra loro, come la perdita di memoria nell’amnesia, la perdita di consapevolezza negli stati di fuga e la suddivisione di ruoli nel disturbo di personalità multipla” (Lerner, 2000).
Anche se a questo punto può sembrare ovvio può essere ancora utile la distinzione con la soppressione: mentre questo meccanismo agisce attraverso l’“evitare di pensare a problemi disturbanti, desideri, sentimenti o esperienze” ed è un meccanismo semi-cosciente che il soggetto stesso può notare, la dissociazione è “la rottura delle funzioni solitamente integrate della coscienza, della memoria e della percezione di Sé nell’ambiente” (A.P.A., 1994) ed è “considerato essere un processo automatico: l’individuo non sa cosa lui o lei dissocia”; inoltre “mentre la soppressione è considerata essere una tra le strategie di coping più adattive, la dissociazione è generalmente vista come un meccanismo di difesa patogenico” (Muris, Merckelbach; 1996).
Relazione primaria e difesa dissociativa.
La famiglia è un “luogo principe” dove fare le prime esperienze, dove imparare a relazionarsi agli altri ed acquisire quella “fiducia di base” che fornisce all’individuo la forza per reagire alle diverse situazioni che affronterà nel mondo esterno; una relazione di attaccamento sicura con le figure parentali svolge una funzione protettiva per la salute fisica e mentale del bambino.
Cosa succede quando l’ambiente non solo non fornisce questa sicurezza indispensabile, ma è anzi un mondo ostile, da cui bisogna innanzi tutto difendersi? E come può difendersi appunto un bambino, che non ha alcuna possibilità di fuga perché completamente dipendente dalle stesse figure che abusano di lui? La difesa dissociativa può occorrere in questi casi come risposta difensiva del bambino al fine di schermare l’angoscia ed allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico.
Nella tesi già citata sono stati presi in considerazione diversi studi e modelli che mettono in relazione la dissociazione con il trauma e l’abuso; è importante poi soffermata sui disturbi della relazione primaria e sulle patologie dei rapporti intrafamiliari (abuso fisico e sessuale, abuso psicologico, neglect). Considero inoltre importante l’approccio di una parte della letteratura più moderna che considera la dissociazione come un meccanismo di difesa attivato non solo da gravi traumi come quelli sopracitati, ma anche come risposta a diverse situazioni stressanti che si ripetono più volte durante l’evoluzione del soggetto e che a lungo andare costituiscono dei “micro-traumi” in grado di attivare meccanismi dissociativi.
In questo caso non è la severità degli accadimenti traumatici ad attivare difese primitive ma la loro ripetitività, il loro protrarsi nel tempo.
L’ “esternalizzazione parentale” , per esempio, consiste nella “proiezione di aspetti svalutati e rinnegati dei genitori sul bambino, il quale viene considerato come qualcosa che di fatto non è” (Lerner, 2000). Non accettare il bambino per l’essere che è realmente, svalutarlo nelle sue capacità, o anche impedirgli quella esperienza del mondo che servirebbe per il suo sviluppo, seppur nel tentativo di proteggerlo, possono talvolta causare (o concorrere) a gravi disturbi nella sua personalità.
Nell’ipotesi di sviluppo che ho descritto, seguendo le linee del lavoro clinico di Orefice (Orefice, 2002), la difesa dissociativa è considerata come una modalità tipica di rapportarsi agli eventi stressanti che l’individuo ha imparato ad utilizzare all’interno di un clima familiare denso di sentimenti di sfiducia e di diffidenza.
Ciò che viene intaccata è proprio la fiducia di base, e la sfiducia e la diffidenza che ne derivano sono poi riproposte dal paziente nelle relazioni con gli altri al punto da non riuscire ad “utilizzare” neanche il clinico nella sua funzione di diagnosi e di cura manifestando una difficoltà nello stabilire l’ alleanza diagnostica o terapeutica.
La dissociazione è inoltre ipotizzata essere il meccanismo alla base dei cambiamenti di stato (si intende con questo il variare di stati affettivi, degli stati di coscienza, fino alla fuga in stati di coscienza alterati) che, mentre rappresentano una modalità naturale di rapportarsi al mondo in un bambino piccolo, diventano segno di patologia se utilizzati abitualmente da parte di un adulto.
Entrambe queste caratteristiche, ovvero la difficoltà d’instaurare l’alleanza terapeutica/diagnostica e la presenza di cambiamenti di stato, sono riscontrabili nei “pazienti difficili” di cui parla la letteratura, spesso diagnosticati con un disturbo in Asse II (disturbi di personalità) o comunque con cospicue difficoltà di rapporto con il clinico : in questo senso, la difesa dissociativa può fornire un’ altra prospettiva per osservare tali disturbi che rappresentano oggi la sfida più grande per il clinico.http://www.psicologiitalia.it/psicologia/psicosi/753/dissociazione-mentale.html
Dissociazione non patologica e disturbi dissociativi
Esistono episodi nella vita quotidiana in cui ricorriamo tutti alla dissociazione: per esempio: leggendo un libro che appassiona, “immergendoci” talmente nella lettura da provare un senso di disorientamento quando qualcosa, come un rumore, ci distoglie; “dimenticandoci” di essere alla guida perchè si pensa a tutt’altro; probabilmente ci stiamo “dissociando” da ciò che facciamo anche quando compiamo diversi lavori contemporaneamente, o quando leggiamo ad alta voce un brano non prestando attenzione al significato.
Queste esperienze non solo non rappresentano patologia, ma sarebbe forse più problematica la loro assenza, infatti dimostrano la capacità dell’individuo di lasciarsi coinvolgere dalle proprie fantasie e di poter poi riprendere il controllo delle proprie funzioni mentali senza rimanerne “sconvolto”.
In questo caso la realtà da cui ci si dissocia non necessariamente è vissuta come minacciosa e stressante; gli episodi sono transitori e non destano preoccupazione o disagio nel soggetto.
Quando invece vi è diagnosi di Disturbo Dissociativo, o Disturbo Post Traumatico da Stress siamo nel campo della patologia; anche se questa è direttamente riconducibile al trauma e ci sono possibilità di remissione, significa che la dissociazione è usata in modo non adattivo per l’individuo.
In primo luogo credo che l’utilizzo indiscriminato dei termini “dissociazione” e “disturbo dissociativo” sia da evitare perché crea confusione tra quella che può essere una modalità difensiva adattiva per l’individuo e una vera e propria patologia, che implica “un disagio clinicamente significativo oppure menomazioni nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti” (DSM-IV); per questo quando parlerò di disturbi dissociativi farò riferimento ai disturbi elencati nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali.
“La caratteristica essenziale dei Disturbi Dissociativi è la sconnessione delle funzioni, solitamente integrate, della coscienza, della memoria, dell’identità o della percezione dell’ambiente” (A.P.A., 1994).
I disturbi mentali sono concettualizzati nel DSM-IV come sindromi o modelli comportamentali o psicologici clinicamente significativi, che si presentano in un individuo e sono associati a disagio, a disabilità, ad un aumento significativo del rischio di morte, (...) od a un importante limitazione della libertà (A.P.A., 1994).
Sempre il DSM-IV avverte che “la dissociazione non dovrebbe essere considerata automaticamente patologica”, ma in questo caso il riferimento è più ad una prospettiva transculturale, in cui si richiede al clinico di considerare il background del paziente, in quanto stati di trance o esperienze di depersonalizzazione possono essere legati ad attività culturali e religiose normali in molte società; il disturbo dissociativo comporta invece una menomazione, un disagio, o la ricerca di aiuto.
Dissociazione come meccanismo di difesa
“Anche nelle persone normali si hanno stati di dissociazione dell’Io dal corpo (…) Per esempio i prigionieri dei campi di concentramento cercavano attivamente di provare questa sensazione, perché il campo non offriva nessuna via d’uscita, sia nello spazio che nel tempo. Non c’era altro modo di uscirne che con una fuga psichica...” (R.D. Laing, “L’Io diviso”1957)
In questo caso il forte impatto emotivo che il trauma ha sull’individuo e la sensazione diinsottraibilità alla situazione traumatica può portare all’uso della dissociazione.
Non si tratta dei fenomeni dissociativi “normali” di cui ho parlato sopra perché il materiale dissociato è minaccioso e la dissociazione è utilizzata come difesa per superare una situazione vissuta come inaffrontabile, paralizzante; essa permette tuttavia di allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico ma l’esperienza viene come congelata, relegata in una parte della memoria non accessibile alla coscienza, compartimentalizzata.
L’elaborazione del vissuto traumatico è rimandata ad un futuro, ad un momento in cui si suppone si sarà in grado di accettare e guardare l’esperienza senza esserne sopraffatti: in questo consiste soprattutto l’adattività di questa difesa.
Strumenti di valutazione della dissociazione.
Secondo le precedenti differenziazione sono descritti diversi strumenti per misurare la difesa dissociativa, che qui mi limiterò ad elencare e per la cui trattazione rimando al capitolo quinto della mia tesi “la difesa dissociativa” presso l’Università di Bologna; per la diagnosi di disturbo dissociativo sono indicati strumenti oggettivi specifici come la Dissociative Disorder Interview Schedule (DDIS) di Ross, la SCID-D basata sui criteri del DSM-IV mentre la Dissociative Experience Scale ingloba all’interno degli items esperienze dissociative normali; vi sono inoltre scale dei meccanismi difensivi che prendono in considerazione il meccanismo della difesa dissociativa, tra cui la Defense Mechanism Rating Scale (DMRS) di Perry e il Defensive Functioning Scale; tra i test proiettivi ho preso in considerazione il TAT ed il Test di Rorschach: oltre a fornire informazioni sulla struttura di personalità dell’individuo questi strumenti permettono di evidenziare l’uso della difesa dissociativa attraverso alcuni indicatori (per esempio nel Rorschach il movimento atipico e il punteggio dissociativo).
La difesa dissociativa e gli altri meccanismi.
Fare un confronto con gli altri meccanismi difensivi può aiutare a individuare certe “sfumature” del suo funzionamento.
Considerando il diniego come un gruppo di difese lungo un continuum (Lerner, 2000) porremo da un lato difese come la minimizzazione, in cui la distorsione della realtà è minima, e dall’altro lato il diniego vero e proprio, come rifiuto “di riconoscere un oggetto fisico o un evento che fa parte della sua esperienza presente” o “negazione psicotica” (Lingiardi e Madeddu, 1994).
Per le sue caratteristiche di forte distorsione della realtà al punto da non riconoscere eventi esterni come parte della propria esperienza sono d’accordo con Lerner nella sua affermazione che “la dissociazione corrisponderebbe al diniego di basso livello piuttosto che al diniego a livello nevrotico” (Lerner, 2000).
Un errore molto comune è poi pensare che il materiale dissociato sia “dimenticato” al pari del materiale rimosso nel meccanismo di rimozione.
Specialmente quando parliamo di Disturbo Dissociativo dell’Identità, “è erroneo concludere che il disturbo abbia a che fare con la memoria repressa (repressed memory) che più tardi ritorna alla mente (diventando recovered memory) (...) E’ importante fare chiarezza agli scettici sul fatto che questi individui (che hanno subito abuso) non hanno mai dimenticato l’abuso infantile, anche se lo hanno fatto i loro attuali stati di personalità. Con questo disturbo, la memoria non è repressa in un inconscio freudiano ma è dissociata in stati di coscienza alternativi (gli stati di personalità alternata) ” (Nadkimen, Klein et altri, 1999).
Entrambe le difese, rimozione e dissociazione, escludono alcuni contenuti mentali dalla consapevolezza; tuttavia “i processi differiscono per ciò che accade al materiale escluso. Con la rimozione, per definizione, il materiale è relegato nell’inconscio, quell’area della vita mentale che non può essere resa consapevole, nemmeno per scelta volontaria” e ciò implica una divisione orizzontale, in cui “ciò che è conscio si trova sopra e ciò che è inconscio è messo sotto; in mezzo vi è una barriera che separa le due parti”.
Nella dissociazione i contenuti non sono relegati nell’inconscio ma “si suppone possano esistere in parallelo, in una specie di co-consapevolezza, oppure si può pensare che siano accessibili alla consapevolezza considerandoli localizzati nel preconscio. (...) la divisione qui non è orizzontale come nella rimozione, ma piuttosto verticale, tra settori dell’esperienza conscia, separati da quella che Hillgard definisce una barriera dissociativa” (Lerner, 2000).
E’ utile inoltre distinguere la dissociazione dalla scissione perché parlare di contenuti tenuti separati, entrambi a livello conscio, può trarre in inganno: infatti “in nessuna delle due la divisione conscio-inconscio è un problema di fondo” ed “entrambe danno origine a un disturbo del senso di sé o del senso di identità” (Lerner, 2000)
Ma la domanda che ci dobbiamo porre è: cosa è mantenuto separato nei due meccanismi di difesa? Nella scissione a provocare ansia è l’ambiguità dei concetti; un oggetto con qualità affettive opposte, in alcuni momenti buono e in altri cattivo, provoca una tale ansia che necessita della scissione per cui la rappresentazione mentale dell’oggetto sarà duplice: un oggetto buono e un oggetto cattivo.
“La dissociazione, invece, è un concetto più ampio ed è usato per indicare una serie di suddivisioni che non sono tipicamente polarizzate in buone e cattive (...) ma comprende fenomeni diversi tra loro, come la perdita di memoria nell’amnesia, la perdita di consapevolezza negli stati di fuga e la suddivisione di ruoli nel disturbo di personalità multipla” (Lerner, 2000).
Anche se a questo punto può sembrare ovvio può essere ancora utile la distinzione con la soppressione: mentre questo meccanismo agisce attraverso l’“evitare di pensare a problemi disturbanti, desideri, sentimenti o esperienze” ed è un meccanismo semi-cosciente che il soggetto stesso può notare, la dissociazione è “la rottura delle funzioni solitamente integrate della coscienza, della memoria e della percezione di Sé nell’ambiente” (A.P.A., 1994) ed è “considerato essere un processo automatico: l’individuo non sa cosa lui o lei dissocia”; inoltre “mentre la soppressione è considerata essere una tra le strategie di coping più adattive, la dissociazione è generalmente vista come un meccanismo di difesa patogenico” (Muris, Merckelbach; 1996).
Relazione primaria e difesa dissociativa.
La famiglia è un “luogo principe” dove fare le prime esperienze, dove imparare a relazionarsi agli altri ed acquisire quella “fiducia di base” che fornisce all’individuo la forza per reagire alle diverse situazioni che affronterà nel mondo esterno; una relazione di attaccamento sicura con le figure parentali svolge una funzione protettiva per la salute fisica e mentale del bambino.
Cosa succede quando l’ambiente non solo non fornisce questa sicurezza indispensabile, ma è anzi un mondo ostile, da cui bisogna innanzi tutto difendersi? E come può difendersi appunto un bambino, che non ha alcuna possibilità di fuga perché completamente dipendente dalle stesse figure che abusano di lui? La difesa dissociativa può occorrere in questi casi come risposta difensiva del bambino al fine di schermare l’angoscia ed allontanarsi, almeno col pensiero, dall’evento traumatico.
Nella tesi già citata sono stati presi in considerazione diversi studi e modelli che mettono in relazione la dissociazione con il trauma e l’abuso; è importante poi soffermata sui disturbi della relazione primaria e sulle patologie dei rapporti intrafamiliari (abuso fisico e sessuale, abuso psicologico, neglect). Considero inoltre importante l’approccio di una parte della letteratura più moderna che considera la dissociazione come un meccanismo di difesa attivato non solo da gravi traumi come quelli sopracitati, ma anche come risposta a diverse situazioni stressanti che si ripetono più volte durante l’evoluzione del soggetto e che a lungo andare costituiscono dei “micro-traumi” in grado di attivare meccanismi dissociativi.
In questo caso non è la severità degli accadimenti traumatici ad attivare difese primitive ma la loro ripetitività, il loro protrarsi nel tempo.
L’ “esternalizzazione parentale” , per esempio, consiste nella “proiezione di aspetti svalutati e rinnegati dei genitori sul bambino, il quale viene considerato come qualcosa che di fatto non è” (Lerner, 2000). Non accettare il bambino per l’essere che è realmente, svalutarlo nelle sue capacità, o anche impedirgli quella esperienza del mondo che servirebbe per il suo sviluppo, seppur nel tentativo di proteggerlo, possono talvolta causare (o concorrere) a gravi disturbi nella sua personalità.
Nell’ipotesi di sviluppo che ho descritto, seguendo le linee del lavoro clinico di Orefice (Orefice, 2002), la difesa dissociativa è considerata come una modalità tipica di rapportarsi agli eventi stressanti che l’individuo ha imparato ad utilizzare all’interno di un clima familiare denso di sentimenti di sfiducia e di diffidenza.
Ciò che viene intaccata è proprio la fiducia di base, e la sfiducia e la diffidenza che ne derivano sono poi riproposte dal paziente nelle relazioni con gli altri al punto da non riuscire ad “utilizzare” neanche il clinico nella sua funzione di diagnosi e di cura manifestando una difficoltà nello stabilire l’ alleanza diagnostica o terapeutica.
La dissociazione è inoltre ipotizzata essere il meccanismo alla base dei cambiamenti di stato (si intende con questo il variare di stati affettivi, degli stati di coscienza, fino alla fuga in stati di coscienza alterati) che, mentre rappresentano una modalità naturale di rapportarsi al mondo in un bambino piccolo, diventano segno di patologia se utilizzati abitualmente da parte di un adulto.
Entrambe queste caratteristiche, ovvero la difficoltà d’instaurare l’alleanza terapeutica/diagnostica e la presenza di cambiamenti di stato, sono riscontrabili nei “pazienti difficili” di cui parla la letteratura, spesso diagnosticati con un disturbo in Asse II (disturbi di personalità) o comunque con cospicue difficoltà di rapporto con il clinico : in questo senso, la difesa dissociativa può fornire un’ altra prospettiva per osservare tali disturbi che rappresentano oggi la sfida più grande per il clinico.http://www.psicologiitalia.it/psicologia/psicosi/753/dissociazione-mentale.html
"I disturbi dissociativi sono quattro: amnesia dissociativa, fuga dissociativa, disturbo di depersonalizzazione, disturbo dissociativo d'identità.
Essi si caratterizzano per profonde alterazioni di coscienza, memoria, senso di identità e percezione della realtà. Le persone colpite da questi disturbi possono essere incapaci di rievocare eventi importanti della loro esistenza, oppure possono dimenticare per un periodo di tempo la propria identità o arrivare ad assumerne una nuova; possono inoltre allontanarsi dai luoghi dove abitualmente risiedono. I disturbi dissociativi possono essere diagnosticati solamente uno per volta, e non possono presentarsi contemporaneamente nello stesso paziente. La diagnosi che ha la precedenza è quella del disturbo dissociativo d'identità, seguita da fuga dissociativa, amnesia dissociativa e depersonalizzazione.
Amnesia dissociativa: l'amnesia dissociativa è caratterizzata dalla presenza di almeno un episodio d'incapacità nel ricordare dati personali importanti, generalmente in seguito ad eventi traumatici o stressanti; questa incapacità risulta troppo estesa per poter essere spiegata come un normale episodio di dimenticanza, e non si manifesta nel corso dell'evoluzione di un'altra patologia, come fuga dissociativa o disturbo post traumatico da stress (vedi disturbi d'ansia). Per essere diagnosticata, essa non deve essere causata dall'uso di sostanze, da una condizione medica generale o da disturbi neurologici; inoltre, deve causare disagio significativo, causare disturbo alla vita sociale o lavorativa del soggetto, o ad altre aree esistenziali importanti. Il più delle volte l'amnesia riguarda tutti gli eventi accaduti in un certo lasso di tempo; più raramente l'amnesia si può manifestare sotto forma di (1):
amnesia continua: l'episodio di perdita di memoria si protrae per lungo tempo o riguarda un periodo di tempo esteso;
amnesia generalizzata: l'amnesia riguarda l'intera vita del soggetto;
amnesia selettiva: l'incapacità riguarda soltanto alcuni degli eventi avvenuti in un certo periodo di tempo.
amnesia generalizzata: l'amnesia riguarda l'intera vita del soggetto;
amnesia selettiva: l'incapacità riguarda soltanto alcuni degli eventi avvenuti in un certo periodo di tempo.
È importante ricordare che durante l'episodio di amnesia dissociativa il comportamento del soggetto è normale, ad eccezione del disorientamento che essa può provocare, e che può portare la persona a vagare senza meta: essa non è in grado di riconoscere persone normalmente conosciute, ma mantiene intatte le sue capacità (ad es. leggere e scrivere), e le conoscenze già acquisite, culturali e sociali. Solitamente, l'amnesia termina improvvisamente, così come si è presentata, e il soggetto recupera completamente la memoria. Le possibilità di ricaduta sono rare.
Fuga dissociativa: la fuga dissociativa si manifesta attraverso un allontanamento inaspettato e improvviso dai luoghi in cui la persona risiede abitualmente, accompagnato dall'incapacità di ricordare il proprio passato; in questo disturbo la perdita di memoria risulta dunque più estesa rispetto al precedente. Il soggetto presenta confusione circa la propria identità, e può assumerne una nuova, iniziando una vera e propria nuova esistenza, dotata di caratteristiche proprie (un nome diverso, un diverso impiego, differenti contatti sociali e così via). Gli altri criteri diagnostici sono gli stessi dell'amnesia dissociativa. Gli episodi di fuga dissociativa si manifestano generalmente in seguito ad un episodio traumatico o stressante; essi possono avere una durata variabile, passando da uno spostamento temporalmente e geograficamente limitato ad un allontanamento più consistente (ed è questo il caso in cui viene assunta una nuova identità). Il recupero di memoria è in genere completo, benché i suoi tempi siano ampiamente variabili, ma permane l'incapacità del soggetto di ricordare gli eventi accaduti durante la fuga.
Il disturbo di depersonalizzazione: nel disturbo di depersonalizzazione la persona presenta una grave alterazione della percezione o dell'esperienza di sé: con questo disturbo si intende un'esperienza ricorrente di sentirsi estraneo, osservatore esterno dei propri processi mentali o del proprio corpo. Queste esperienze causano disagio significativo e menomazione dell'esistenza; può succedere che la persona si percepisca come un meccanismo, come se lei stessa e gli altri fossero degli automi, oppure può avere l'impressione di vivere in sogno, al di fuori della realtà quotidiana. L'esame di realtà (vedi glossario) rimane comunque intatto, cosa che non si verifica nel caso dei soggetti schizofrenici, i quali vivono queste esperienze con maggiore intensità e nella più assoluta completezza. La peculiarità di questo disturbo rispetto agli altri dissociativi è l'assenza di un'amnesia.
Disturbo dissociativo dell'Identità: nel disturbo dissociativo di Identità la persona manifesta almeno due distinte identità o stati di personalità del tutto indipendenti, ciascuno con propri modi costanti di percepire, relazionarsi e pensare nei confronti di se stesso e dell'ambiente. Essi emergono e si manifestano assumendo ricorrentemente il controllo della persona in tempi diversi, e spesso accade che un'identità non abbia memoria dell'altra, non sia quindi cosciente dell'esistenza dell'altra e non ne possa serbare alcun ricordo. L'identità primaria, come le altre identità secondarie, sono consapevoli però di avere delle lacune nella memoria e talvolta hanno un sentore le une delle altre. Solitamente le varie personalità sono molto diverse l'una dall'altra, anche opposte, arrivando ad essere destrimane o mancine, o ad avere differenti allergie.
Questo disturbo esordisce nell'infanzia, ma generalmente viene diagnosticato soltanto nell'adolescenza; esso è più pervasivo degli altri disturbi dissociativi e spesso assume la forma di cronicità, precludendo la possibilità di un recupero completo. La compresenza con altre diagnosi è frequente, come con depressione, disturbo borderline di personalità e disturbo di somatizzazione."
Questo disturbo esordisce nell'infanzia, ma generalmente viene diagnosticato soltanto nell'adolescenza; esso è più pervasivo degli altri disturbi dissociativi e spesso assume la forma di cronicità, precludendo la possibilità di un recupero completo. La compresenza con altre diagnosi è frequente, come con depressione, disturbo borderline di personalità e disturbo di somatizzazione."
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